Muoversi senza mappa

Verso sera, nella sorprendente limpidezza del penultimo giorno, abbiamo incrociato su un’alta cresta un giovane finlandese, la sola persona incontrata in due settimane sulle montagne. Di fronte alle ultime alture della penisola circondate dal mare ci scambiavamo impressioni sulle caratteristiche del paesaggio quando il finlandese, per mostrarmi il percorso, ha estratto qualcosa a cui ormai avevamo completamente perso l’abitudine: la carta topografica. In un istante mi hanno attraversato due diverse sensazioni, molto nitide e distinte anche se rapidissime. Prima, l’emozione di rivedere un oggetto assolutamente familiare, legato ad alcuni dei periodi più intensi della mia vita: una carta norvegese simile alle circa duecento su cui una quindicina di anni fa avevo immaginato e poi vissuto la traversata a piedi di tutto il Paese e, in seguito, molti altri percorsi, tutti inventati sulla base della disposizione di quei colori stampati: il marrone delle curve di livello, l’azzurro dei laghi e dei fiumi, il bianco dei ghiacciai, il verde dei boschi, le linee nere del reticolato chilometrico. Periodi che, sommati, ammontano a quasi un anno vissuto in Norvegia nel cercare e trovare giorno dopo giorno una via personale: come non provarne nostalgia?

D’altronde, appena il finlandese fa scorrere il dito sulla carta, dove in un solo colpo d’occhio si afferra la situazione di tutto il territorio e con essa appaiono evidenti anche i percorsi ideali, ho l’impressione vivissima di quanto sarebbe stato banale per me muovermi oggi con quelle carte su queste montagne; come sarebbero state scontate le scelte dei colli migliori, l’individuazione dei passaggi poco visibili, le traversate delle cime ghiacciate; quanto Mario e io ci saremmo sentiti in dovere di raggiungere dei punti prefissati anziché stupirci per ogni novità e congratularci per ogni passo compiuto, non importa verso dove; quanto, soprattutto, avremmo anteposto l’ansia di realizzare il nostro percorso ideale alla bellezza mostrata dagli imprevedibili eventi quotidiani. Certo le difficoltà alpinistiche e climatiche avrebbero proposto comunque delle incognite, ma il rapporto complessivo con questa terra sarebbe stato molto meno istruttivo.
Ricordo bene che in passato non era così, che anche per me cercare la via in un territorio disabitato, col maltempo, con le sole informazioni delle mappe, era una grande avventura. Molte carte, anzi, contengono rappresentazioni del territorio talmente affascinanti da avermi incantato per giornate intere, come fossero delle opere d’arte. Rivelandomi forme della terra che da solo non avrei notato, sono state per me dei maestri e delle guide. Tuttavia, arriva sempre un tempo in cui, volendo proseguire il proprio cammino, occorre distaccarsi proprio dalle guide, che, per quanto valide, non possono contenere in sé l’esito dell’evoluzione spirituale di ogni persona. È un passo indispensabile per lasciarci scoprire nella realtà quelle sfumature che proprio se individuate in modo del tutto personale potranno davvero tenere compagnia alla nostra vita. Nel mio caso, riporre le mappe di carta significa dunque provare a crearne altre più “su misura”: mappe di memoria viva, carte mentali delle relazioni che si intrecciano su un territorio, ricche di tutti i movimenti, i particolari e le sfumature che la nostra sensibilità sa collocare entro la rappresentazione di una terra e che nessun supporto cartaceo o informatico potrà mai imitare.

Questa scelta, in totale contro tendenza rispetto all’atteggiamento più diffuso tra le spedizioni odierne, che all’uso delle carte abbinano quello della navigazione satellitare, merita altre riflessioni, anche perché i miei amici ed io non siamo stati i soli a rinunciare oggi alle mappe. Un caso divenuto molto noto, e discusso nel best-seller di Jon Krakauer Nelle terre estreme, è quello del giovane Chris McCandless, inoltratosi in solitudine nella taiga dell’Alaska nell’aprile del 1992 per sperimentare le sue capacità di sopravvivenza nella wilderness e ritrovato morto per denutrizione alcuni mesi più tardi. Scrive in proposito Krakauer: «Nell’andare in Alaska McCandless sognava di esplorare terre sconosciute, di scovare un buco nero sulla mappa. Peccato che nel 1992 non ne esistessero più, né in Alaska né altrove. Eppure Chris, con la sua stravagante logica, trovò un’elegante soluzione al dilemma: si liberò della mappa. Nella sua mente, o chissà dove, in questo modo la terra si sarebbe mantenuta un’incognita».

Io non definirei stravagante la logica di McCandless, perché comunque chi oggi va a piedi sul territorio ha già rinunciato ai mezzi fuoristrada o all’elicottero, che potrebbero portarci quasi ovunque. Il nostro rapporto individuale con la terra ha ormai ben poco di obbligato: in ogni caso dipende dalle nostre scelte, e quella di riesplorarla senza mappe non è più bizzarra di qualsiasi altra. Il punto è che le carte topografiche, di per sé, ci offrono una rappresentazione statica del territorio e l’indicazione dei suoi toponimi ufficiali, ma non ci insegnano le relazioni vive, fatte di mille combinazioni, tra gli innumerevoli elementi del paesaggio, del clima e degli esseri viventi, che, come detto, costituiscono la vera conoscenza utile per muoversi efficacemente nell’ambiente naturale; e McCandless, a quanto pare, rimase bloccato proprio perché aveva trascurato la conoscenza delle relazioni tra condizioni dei corsi d’acqua, andamento delle stagioni nordiche e percorribilità del territorio. In pratica, se abbiamo una lunga esperienza delle relazioni che governano il divenire di un certo ambiente, nel quale individuiamo un territorio che solo topograficamente ci è ignoto,  possiamo percorrerlo tanto con mappe e strumenti quanto senza. La vera differenza è che invece di stabilire delle mete ideali a priori (di solito scelte perché in qualche modo “prestigiose”, perciò difficilmente modificabili di fronte agli imprevisti, e quindi fonte di pericolo) e invece di utilizzare ogni informazione e mezzo disponibili per raggiungerle col minimo di incertezza, si privilegia l’interpretazione del presente: ci si va immergendo nella realtà studiandola e facendosi indicare da essa le mete quotidiane, i cui nomi hanno poca rilevanza; quelle mete che al momento corrispondono meglio alle nostre capacità e ai nostri sogni. Il che non toglie la possibilità di tenere una rotta con precisione, di trovare un luogo misterioso di cui si aveva solo una vaga idea o una via di salita su una montagna selvaggia. È pure possibile andare da un capo all’altro di una terra, come l’esperienza ci ha insegnato.