Le vie invisibili

È la vigilia di un’uscita a lungo preparata e attesa: il 5 aprile sarà in libreria Le vie invisibili (Ponte alle Grazie), una narrazione di viaggio che ho portato dentro di me per decenni, mentre negli anni si sommavano le esperienze selvagge vissute nelle terre del Nord. Luoghi a cui mi sono legato come a una seconda patria. Norvegia e Terra dei Sami, Islanda, Scozia, Fær Øer, Shetland, Groenlandia: vastità che in me, come nel racconto, non stanno sullo sfondo. Sono protagoniste. I loro eventi, la loro bellezza, il mistero dell’immenso conducono l’andare di noi piccoli esseri umani e gli danno significato.

Non volevo che il libro uscisse senza aver ripreso contatto con la vera materia che lo ispira. Da quattro anni non tornavo nel Nord: la pandemia, lutti, dolori alle ginocchia. Prima di presentarlo in una serie di appuntamenti, di parlare in pubblico di cosa rappresenta questo racconto, sentivo il bisogno di riattingere a quegli orizzonti, così adatti a perdersi lontano dai prodotti virtuali della mente umana che irretiscono il mondo. Sono tornato in Norvegia nel mese di marzo appena concluso, con sci e slitta e in compagnia di Davide Ferro, che troverete con me anche in tre dei viaggi raccontati nel libro.

Un viaggio pensato nell’essenzialità: il grande altopiano innevato Hardangervidda, vasto circa 10.000 chilometri quadrati; un sito abitato da cui partire e dove tornare dopo due settimane in autonomia e isolamento; tre montagne ben riconoscibili in caso di buona visibilità all’interno dell’altopiano, tra centinaia non identificabili; la partenza senza possedere mappe, bussola, orologio, gps, cellulare; il proposito di compiere un anello in senso orario, libero, pernottando in tenda, sul percorso che sarebbe nato giorno dopo giorno. Un esercizio di meraviglia, di silenzio di informazioni, di dubbio e di fiducia, un po’ anche di resistenza.

Ho, abbiamo, ritrovato quel senso di collaborazione tra noi e gli eventi naturali selvatici che ridà speranza alla vita; che fa pensare che perdendo la pretesa di controllo, sicurezza e programmazione del percorso umano, ma sostituendolo con attenzione e ascolto, si andrebbe per vie che rasserenano anziché impaurire. Sono bastati un paio di giorni per farci ritrovare nell’ignoto, dentro vastità bianche e velate di brume che si succedevano senza interruzioni. Immensi falsopiani da cui si ergevano monti come grandi gobbe sovrapposte ridondanti di neve, simili a nuvole nei vapori. Il sole appariva e svaniva, spesso era un fantasma dietro il nevischio, e ci faceva da bussola intermittente. Di incerta valutazione, perché per molte ore pareva sempre alla stessa altezza sull’orizzonte, e l’individuazione del Sud era molto approssimativa. Andavamo verso il cuore dell’altopiano, prima a sud, poi a ovest, più avanti a nord, perdendo sempre più la cognizione di dove fossimo realmente, ma sapendo che con pazienza saremmo comunque sbucati da qualche parte: a una strada o a un fiordo.

La luce, il vapore e l’aria posati sulla neve sono divenuti i compagni perenni dell’andare. Compagni multiformi e capaci di metamorfosi continue rispetto alla loro percezione comune. Gli effetti del whiteout, il fondersi del biancore della neve e dell’aria che fanno sparire le dimensioni e le forme del terreno, si presentavano e sparivano tra continue variazioni. Ma il colloquio silenzioso più indecifrabile avveniva con le visioni della vastità che spesso si aprivano davanti a noi fino a orizzonti intermedi, tra i nostri piedi e nubi che nascondevano l’orizzonte ultimo. Ci pareva di affacciarci dall’alto su pianori ribassati che conducevano a monti sprofondati molto più in basso del nostro punto di vista. Eppure, avvicinandoli, questa perdita di quota non avveniva mai. Le gambe che avanzavano sugli sci sentivano sempre la fatica di aprirsi la traccia sulla neve in piano o in leggera salita, senza mai scendere. E quando, ore dopo, si arrivava alle remote montagne, s’innalzavano alte e ripide e occorreva aggirarle. Un giorno ci trovammo di fronte a un bassopiano in evidente discesa; alle nostre spalle vedevamo la conca salire. Un grosso torrente, che a causa delle temperature ormai meno fredde che in passato scorreva per un tratto in una lunga apertura della neve, giungeva dal bassopiano, e lo vedevamo con certezza fluire in salita dietro di noi. Per quanto guardassimo, la vista confermava l’impressione. Era trascinante quel sentire di aver abbandonato non solo gli strumenti tecnologici, ma anche parte delle abituali indicazioni dei sensi.

Io ero meno stupito di Davide perché, come racconto in un capitolo del libro, avevo vissuto un simile miraggio sul ghiacciaio Vatnajökull, durante la traversata dell’Islanda. La ragione spiega che questi miraggi sono dovuti al sovrapporsi di strati di aria a diversa temperatura e densità, che rifrangono i raggi di luce mutando la loro direzione. L’alto può diventare basso e viceversa. Ma non è questo che conta. È che là, nella solitudine fisica, le nostre impressioni erano continuamente sottoposte alla verifica del corpo. Bastava mettersi in marcia e sentire con le gambe il reale andamento della superficie per cambiare l’interpretazione dell’apparenza. Ne abbiamo parlato spesso, in viaggio, dell’inganno della mente pura, della cosiddetta intelligenza artificiale. La contrapposizione a ciò che stavamo vivendo. Perché l’intelligenza appartiene alla vita, a tutta la vita, ed esiste solo come espressione e funzione di corpi viventi. Non si può tirare fuori dalla vita la capacità di calcolo, combinazione e analisi matematica e chiamarla ancora intelligenza. Ci vogliono esseri viventi che cercano la loro via tra mille desideri, emozioni, ostacoli, perché l’intelligenza nasca. Perciò andavamo avanti nell’incertezza, e le motivazioni che mi avevano ispirato a scrivere erano confermate.

Solo una sera, per un breve momento, abbiamo scorto a grande distanza le tre montagne note che potevano farci da riferimento. Una in particolare è sparita per sempre e non ci siamo capacitati di dove fosse finita. Tanto che dopo nove giorni i dubbi su dove fossimo erano pressanti. Siamo entrati in una sorta di porta fra due alture dirupate che si è rivelata una gola sinuosa incisa tra pareti. Non finiva più e ho capito che aveva un chiaro significato geologico: l’acqua incide così la roccia solo se appena oltre c’è un forte dislivello verso il basso. Forse eravamo ai confini dell’altopiano, dove per lunghe distanze precipita nei fiordi, più bassi di oltre 1000 metri. Ma dove su questi confini? Temendo precipizi siamo tornati indietro e ripartiti accanto alle alture. Tra me e me mi sono rivolto al cielo, perché trovassimo un indizio. Poco dopo, oltrepassando un crinale brumoso, è apparsa una valle che sprofondava tra i monti: lontano c’erano boschetti di betulle e sagome di edifici; più a monte, la linea di una strada, dell’unica strada. In un solo sguardo tutto si era chiarito: sapevamo dove eravamo, sulla buona via per compiere l’ultima parte dell’anello verso il punto di partenza. Ci siamo arrivati con puntualità, attraverso tormente e whiteout, il quattordicesimo giorno.

Per gran parte dell’andare abbiamo incrociato orme di animali sulla neve: renne selvatiche, alci, volpi, lepri, topolini, pernici bianche e forse altri. Solo gli alci, le pernici e un topolino si sono fatti vedere. Esperienze come queste ci avvicinano agli animali; la povertà di mezzi stimola l’empatia. Prima e dopo il viaggio mi ha accompagnato una piccola esperienza con un animale per nulla nordico. Ero a casa, alla fine di febbraio, e una mosca che si era risvegliata in anticipo a causa delle alte temperature vagava stanca sul pavimento. La raccolsi e posai sul tavolo; immaginai che avesse sete, così deposi davanti a lei con un dito una goccia d’acqua. Subito si avvicinò e bevve con la sua minuscola proboscide. Allora pensai di mettere vicino anche una piccola goccia di marmellata, doveva avere fame. Assorbì anche un po’ di quella sostanza, ma senza esagerare, e poi si soffermò a strofinarsi le zampette e il muso. Mi venne un pensiero ispirato dalla cronaca: che la bacheca della Gioconda, al Louvre, poteva essere coperta di minestra tutte le volte che si voleva. Anzi, che per me la Gioconda stessa poteva sparire nel nulla, se in cambio continuerà a esserci una mosca d’inverno che viene a bere alla mia goccia d’acqua.

Leonardo lo sapeva: di Gioconde poteva dipingerne quante voleva, ma creare una mosca vivente, chi poteva farlo?